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martedì 7 agosto 2012

Olimpiadi Londra 2012: il riscatto della fede, in un Paese che ha bandito i simboli religiosi

In Gran Bretagna nei luoghi pubblici e sul lavoro è proibito mostrare segni che richiamano la fede professata. Esemplare la vicenda della hostess licenziata perché indossava una croce. Tuttavia, gli atleti impegnati nella rassegna non nascondono l’appartenenza religiosa. Prima e dopo le gare, segni di croce, prostrazioni e preghiere di ringraziamento.


Londra (AsiaNews) - Bandite dalle leggi sul lavoro e dalle norme nazionali nella disciplina dei luoghi pubblici, le religioni e loro simboli sono rientrati a pieno titolo sul suolo britannico durante le Olimpiadi di Londra 2012, entrate nell'ultima settimana di competizioni sportive. Dal centometrista Usain Bolt alla judoka saudita Wojdan Shaherkani, da Maziah Mahusin - prima atleta alla rassegna per il sultanato del Brunei - al fondista di casa Mohamed Farah, fresco vincitore dei 10mila metri, la 30ma edizione ha segnato un riscatto per quanti associano alla competizione agonistica un valore profondo per la fede professata. Che diventa un elemento di forza e concentrazione prima di gareggiare, oppure gesto di ringraziamento dopo un successo atteso per quattro anni e frutto di lunghi e duri allenamenti.
Se ai giochi venisse applicata la legge britannica in materia di lavoro, il re della velocità Usain Bolt - ieri il giamaicano ha bissato il successo olimpico di Pechino 2008 - dovrebbe essere squalificato per il segno di croce e per aver appeso al collo il simbolo religioso più famoso per i cristiani. Un paradosso? Un'esagerazione? Niente affatto, se pensiamo alla vicenda della hostess della compagnia British Airways, licenziata perché indossava una croce. Per la cronaca, la donna ha perso anche la causa in tribunale; per i giudici, simboli e religioni non vanno esibiti - o semplicemente indossati - in nome del "politically correct" che tutti i sudditi della regina devono rispettare.
Un capitolo a parte va dedicato alla prima donna saudita in gara alle Olimpiadi: è la 18 judoka Wojdan Shaherkani, al centro di una vivace polemica fra federazione e delegazione saudita per il tipo di velo che la lottatrice avrebbe dovuto indossare. Per i vertici del judo, il velo tradizionale - l'hijab - poteva mettere a rischio la salute dell'atleta, con rischi di soffocamento. La delegazione di Riyadh sembrava inflessibile, solo il tradizionale velo islamico. Alla fine si è giunti a un accordo e per 82 secondi - tanto il tempo impiegato per venire sconfitta dalla rivale - ha potuto calcare, con una cuffia nera in testa, il palcoscenico olimpico. E, a dispetto dei risultati, si dice pronta a riprendere gli allenamenti in vista di Rio 2016.
Tuttavia, è proprio un campione di casa a riscattare il valore della fede in una nazione che vuole nascondere i simboli religiosi. È il fondista Mohamed Farah (nella foto), che si è aggiudicato i 10mila metri su pista. Al termine della gara, il 29enne l'atleta di origini somale ma cresciuto in Inghilterra - di religione musulmana - si è inginocchiato sulla pista e ha ringraziato Allah per il successo. Un gesto spontaneo, termine ultimo di quattro anni di fatiche e sacrifici. Che, a differenza della hostess della British Airways, non comporterà squalifiche o il ritiro della medaglia olimpica.

martedì 10 gennaio 2012

MENO ABORTI IN ITALIA, MA SONO SEMPRE TROPPI


ROMA, lunedì, 9 gennaio 2012 (ZENIT.org) - L’ultima Relazione del Ministero della Salute italiano sulla legge 194 relativa all’anno 2009 (quella sulla legislazione per l’aborto volontario) riferisce che in quell’anno quasi 117.000 bambini non hanno potuto vedere la luce, mentre nello stesso 2009, 568.857 sono nati vivi. Si è però registrato un calo degli aborti nel nostro paese: passati, nel 2009 rispetto al 2008, da 121.301 a 116.933 (-4368, pari al 3,6%). Nel 1982, anno del triste record (234.801 casi), la diminuzione è di oltre il 50%.
I dati dicono anche che le lavoratrici sono la categoria che fa ricorso più frequentemente alla IVG (Interruzione volontaria di gravidanza). La Lombardia (con quasi 10 milioni di abitanti) è dove si abortisce di più (19.700 casi, -4,2% rispetto al 2008). Le regioni più virtuose sono la Valle d’Aosta (217 casi, -9,6%) e la Basilicata con un calo di quasi il 10% (700 casi), mentre solo in Molise il dato appare in controtendenza (634 casi, +5,7%).
All’estero stanno decisamente peggio: l’Italia ha infatti valori tra i più bassi dei paesi europei: gli aborti per 1.000 donne in età tra i 15 e i 44 anni (range d’età europeo) sono il 10,3% in Italia, molto meglio che in Russia (40,3), Romania (31,3), Svezia (21,3), Inghilterra (17,5), Francia (17,4) e Spagna (11,8). Ci battono solo Belgio (9,6), Olanda (8,7) e Germania (7). Infine, un ultimo dato: il 45,5% delle donne italiane che hanno abortito non avevano figli.
Questi i dati che naturalmente non parlano delle tragedie che l’aborto comporta per i bimbi mai nati, per le giovani donne e i loro uomini, per le famiglie a vario titolo coinvolte. La signora Paola Marozzi Bonzi, nel 1984 fondatrice e direttrice del Centro di Aiuto alla Vita (CAV) della clinica Mangiagalli di Milano, che in 27 anni ha salvato 13mila bambini dall’aborto (vedi il Blog dell’11 dicembre 2011), mi dice: “Le donne che hanno scelto di abortire, nella grande maggioranza dei casi subiscono un forte p anche fortissimo trauma fisico e psicologico, del quale spesso non si liberano più del tutto”.
Negli ultimi tempi è venuto sempre più alla ribalta dell’informazione il problema degli aborti, non direttamente per abolire la Legge 194, ma almeno per applicarla con rigore, visto che la Legge afferma e tutti concordano sul fatto che l’aborto dovrebbe essere il più possibile evitato con vari provvedimenti economici di aiuti alle famiglie e anche psicologici di aiuto alle donne in difficoltà di vario genere per partorire. Se non altro perché noi italiani diminuiamo di più di 100.000 unità all’anno, aumentiamo solo grazie ai circa quattro milioni di lavoratori “terzomondiali” che si sono stabiliti in Italia. Insomma, tutti ormai sanno che in Italia nascono troppo pochi bambini italiani! Almeno quelli che sono stati concepiti e stanno giungendo a maturazione, lasciamoli e aiutiamoli ad uscire dal grembo materno!
Il 30 dicembre scorso, in primissima serata dopo il TG di Rai Uno delle ore 20, nella rubrica Qui Radio Londra con grande coraggio Giuliano Ferrara ha parlato non dell’aborto, ma della vita di un bambino che nasce, con molto garbo e commozione, in modo del tutto laico. Dato che la sera seguente il Presidente Napolitano avrebbe tenuto nelle reti unificate delle Tv il suo annuale “Discorso agli italiani” per augurare Buon Anno a tutti, Giuliano ha avanzato una proposta che credo rappresenti la grande maggioranza degli italiani. “Caro Presidente, ha detto in sostanza, domani sera, nel suo discorso atteso da tanti italiani parlerà di tanti problemi della nostra Italia e la sua parola ha un notevole influsso sui nostri compatrioti. Ebbene, veda di inserire un cenno al dovere che tutti abbiamo di aiutare una  donna, una coppia che vorrebbero avere un bambino ma si orientano verso l’aborto per vari motivi. Aiutare chi è in difficoltà dovrebbe essere cosa normale per ognuno di noi. Caro Presidente della Repubblica (cito sempre a memoria) perché non mettere in agenda questa battaglia civile per la vita? Lei ne ha fatte tante: la sicurezza sul lavoro, i dissesti idrogeologici, l’immigrazione e la cittadinanza per i figli di immigrati… perché non aggiungere anche questa battaglia per la vita? Molti del popolo si sono già mossi in questo senso con il “Progetto Gemma”, nel popolo c’è già questa sensibilità di far nascere il più possibile tutte le vite. Domani sera, dica qualcosa su questo”.
Ecco, la sera del 31 dicembre eravamo molti milioni a sentire il discorso di Napolitano. Non ha parlato della vita che deve nascere e non può per mancanza di solidarietà umana e di sostegno da parte dello Stato italiano. Mi spiace dire che ha deluso molti e ci ha fatto sentire, per quella sera, non pienamente rappresentati dal Capo dello Stato.
di Piero Gheddo.